(Tratto dal libro «Sudditi» di Massimo Fini, pubblicato da Marsilio Editore)
Che cos’è, realmente, la democrazia?
Quando si cerca di definirla iniziano i guai.
Quando si cerca di definirla iniziano i guai.
John Holmes, uno storico e teorico americano del liberalismo, ha scritto che i critici di destra della democrazia «si autodefiniscono negativamente» in opposizione al liberalismo e alla democrazia. C’è del vero.
Ma si potrebbe dire, altrettanto legittimamente, che la democrazia si «autodefinisce negativamente» in opposizione alle dittature. Perché quando si cerca di darle un contenuto positivo, preciso e definito, si entra in un ginepraio.
Ma si potrebbe dire, altrettanto legittimamente, che la democrazia si «autodefinisce negativamente» in opposizione alle dittature. Perché quando si cerca di darle un contenuto positivo, preciso e definito, si entra in un ginepraio.
Anche se restringiamo il campo alla democrazia liberale, che è quella che qui ci interessa perché è la forma che si è affermata in Occidente, e scartando quindi la democrazia diretta, quella socialista, quella corporativa, quella popolare, ci si trova di fronte a un animale proteiforme, mutante e sfuggente, di cui pare di essere sempre sul punto di cogliere l’essenza che tuttavia ci sfugge. (…)
Cerchiamo da profani, di capirci almeno qualcosa.
Democrazia significa, etimologicamente, «governo del popolo». Scordiamoci che il popolo abbia mai governato alcunché, almeno da quando esiste la democrazia liberale. Se c’è qualcosa che fa sorgere nell’anima di un liberale un puro sentimento di orrore è il governo del popolo.
Quindi non è tanto paradossale scoprire che se il popolo ha governato qualcosa è stato in epoche preindustriali, preliberai, predemocratiche. Non è necessario andare a scovare, come da Alain de Benoist, remote realtà islandesi come l’Althing, una forma di autogoverno comparsa intorno all’anno Mille, dove «il thing, o parlamento locale, designa nel contempo un luogo e un’assemblea in cui gli uomini liberi detentori di diritti politici eguali, si riuniscono a date fisse per pronunciare la legge».
Basta osservare la comunità di villaggio europea in epoche medievale e rinascimentale, prima che lo Stato nazionale si affermasse definitivamente assorbendo tutto il potere. L’assemblea del villaggio, formata da capifamiglia, in genere uomini ma anche donne se il marito era morto o assente, decideva assolutamente tutto ciò che riguardava il villaggio. A cominciare dall’essenziale: la ripartizione all’interno della comunità delle tasse reali e dei canoni che alimentano il bilancio comunale. E poi veniva tutto il resto: nomina il sindaco, il maestro di scuola, il pastore comunale, i guardiani delle messi, i riscossori di taglia, votava le spese, contraeva debiti, intentava processi, decideva la vendita, scambio e locazione dei boschi comuni, della riparazione delle strade, dei ponti, della chiesa, del presbiterio e così via.
Ma quella era la vecchia, cara democrazia diretta, che non sapeva nemmeno d’esser tale, che non aveva nome né teorizzatori, e che in Francia fu definitivamente spazzata via pochissimi anni prima della Rivoluzione, nel 1787, quando, sotto pressione della avanzante borghesia e della sua smania normativa e prescrittivi, un decreto reale, col pretesto di uniformare e regolare un’attività che aveva sempre funzionato benissimo, limitò il diritto di voto agli abitanti che pagano almeno dieci franchi di imposta e, soprattutto, introdusse il principio – che doveva diventare l’ambiguo cardine del potere politico in Occidente – della rappresentanza. L’assemblea non decide più direttamente ma elegge dai sei ai nove membri.
Lo Stato assoluto reclamava per sé i diritti che quegli zoticoni dei contadini, degli autentici screanzati, si erano permessi di praticare. E poiché lo Stato è troppo grande territorialmente e complesso giuridicamente perché il popolo possa dire direttamente la sua, nacque la democrazia rappresentativa dove il cittadino, formalmente detentore del potere, lo delega a un altro che diventa il suo rappresentante, mentre il rappresentato, retrocesso alla condizione di governato, partecipa al momento decisionale attraverso periodiche elezioni che divengono, di fatto, l’unico momento in cui egli esercita, o si dice che eserciti, quel potere che è suo. E’ quindi all’interno del regime rappresentativo che va posta l’inquietante domanda: qual è l’elemento cardine della democrazia?
Sarà, forse, il consenso?
Niente affatto. Il consenso può esistere anche nelle dittature, come insegnano il nazismo e fascismo, spesso anzi è assai più ampio di quello che i governatori possono ottenere in un regime democratico.
Sarà allora il fatto che in democrazia il consenso è spontaneo e nelle dittature coatto?
Anche questo è dubbio. Nazismo e fascismo ebbero per un certo periodo un consenso sicuramente spontaneo e volontario. Caduta l’egemonia dell’antifascismo militante, che aveva velato pudicamente per alcuni decenni la vergognosa verità, oggi non c’è libro di storia che non parli degli «anni del consenso» al regime mussoliniano.
Sono quindi le elezioni?
Ma anche in Unione Sovietica, persino in Bulgaria, com’è noto, si tenevano elezioni.
E’ il pluripartitismo?
Max Weber nota – e siamo già negli anni Venti del Novecento – che «l’esistenza dei partiti non è contemplata, da nessuna Costituzione» democratica e liberale. Non possono quindi essere i partiti l’elemento caratterizzante della democrazia liberale che esisteva anche prima della loro istituzionalizzazione.
Sarà, come alcuni dicono, «il potere della legge»?
Ma il potere della legge esiste anche negli Stati autoritari, anzi più uno Stato è autoritario più questo potere è forte e invalicabile. Si obbietterà che negli Stati autoritari la legge è arbitraria e discrimina fra cittadino e cittadino.
E’ perciò, allora, «l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge» il clou della democrazia?
Ma anche nei regimi comunisti i cittadini sono uguali, almeno formalmente, davanti alla legge.
E allora il principio della rappresentanza?
Ma anche il monarca «rappresenta il popolo».
Sarà dunque, come dice Popper, che la democrazia è quella forma di governo caratterizzato da un insieme di regole che permettono di cambiare i governanti senza far uso della violenza.
Neppure questo. E’ storico che nelle aristocrazie il governo può passare da una fazione a un’altra senza spargimento di sangue.
E si potrebbe andare avanti, per pagine e per decenni, ma non si troverebbe la regola-base della democrazia liberale. Scriveva Carl Becker:
«democrazia è una parola che non ha referente, dal momento che non c’è nessuna precisa e palpabile cosa o oggetto al quale tutti pensano quando pronuncia questa parola».
La democrazia è innanzitutto e soprattutto un metodo. Come ha intuito per primo Hans Kelsen. La democrazia è costituita da una serie di procedure formali, avalutative, cioè prive di contenuto e di valori, per determinare la scelta dei governanti sulla base del meccanismo del prevalere della volontà della maggioranza. Essendo una pura forma priva di contenuti valoriali è fondamentale che almeno questa forma sia rispettata. (...)
Inoltre, le procedure, seguendo il criterio della maggioranza, possono mutare e mutano nel tempo, a tal punto da potersi trasformare, con mezzi democratici, in un sistema sostanzialmente autoritario. Ma poiché non esiste un’essenza della democrazia, non esiste neppure una vera linea di confine per cui si possa dire con sicurezza che si è passati da un sistema all’altro.
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