Immaginiamo un dialogo tra un grande filosofo del Seicento e un prestigioso scienziato nostro contemporaneo. Monsieur Descartes: "Penso ci siano pochi dubbi sull'esistenza di una libera scelta nel corso delle nostre azioni". Benjamin Libet: "Ma noi abbiamo scoperto che il cervello è pronto per un'azione volontaria circa mezzo secondo prima che la persona diventi consapevole in modo cosciente della sua intenzione! "
Gli esperimenti di Benjamin Libet, in campo neurofisiologico ribaltano completamente i paradigmi che per 2 secoli hanno plasmato il pensiero occidentale, dalla filosofia all'etica, dalla psicologia alla giurisprudenza.
Se non è la coscienza, e quindi la volontà soggettiva ed individuale la responsabile delle azioni del singolo, cosa le muove. E soprattutto perchè?
E se non ha senso parlare di volontà, che senso ha affrontare temi come quello della responsabilità?
Infondo non è così strano: anche un sasso in caduta da un grattacielo potrebbe pensare di essere libero.
Ora lascio la parola a Piergiorgio Odifreddi con un capitolo di un suo libro in cui presenta "Mind Time" di Benjamin Libet.
Dal libro IL MATEMATICO IMPENITENTE - 2008 (Piergiorgio Odifreddi)
Sto scrivendo questo articolo, ma chi me lo fa fare? È innegabile che sia io a scriverlo, ma è altrettanto innegabile che sia sempre io ad aver deciso di scriverlo? Naturalmente, così mi sembra, ma sappiamo che spesso le impressioni sono ingannevoli. Per questo, da e per molto tempo, ci si è interrogati sul famoso dilemma tra libero arbitrio e determinismo: al di là dell’apparenza superficiale, cioè, le nostre azioni sono liberamente scelte, oppure sono forzatamente determinate?
Fino a poco tempo fa qualunque risposta al dilemma era ideologica, nel senso che riposava su pregiudizi filosofici a priori, invece che su giudizi sperimentali a posteriori.
Anche perché osservare i meccanismi cerebrali della decisione è una cosa complessa, e prima della neurofisiologia e delle scienze cognitive non si avevano a disposizione strumenti scientifici di indagine introspettiva, ma soltanto giocattoli letterali di invenzione creativa quali la psicologia e la psicoanalisi, che per la cronaca hanno comunque reso popolari vari modelli più o meno deterministici del comportamento, basati su condizionamenti più o meno inconsci.
Fino a poco tempo fa qualunque risposta al dilemma era ideologica, nel senso che riposava su pregiudizi filosofici a priori, invece che su giudizi sperimentali a posteriori.
Anche perché osservare i meccanismi cerebrali della decisione è una cosa complessa, e prima della neurofisiologia e delle scienze cognitive non si avevano a disposizione strumenti scientifici di indagine introspettiva, ma soltanto giocattoli letterali di invenzione creativa quali la psicologia e la psicoanalisi, che per la cronaca hanno comunque reso popolari vari modelli più o meno deterministici del comportamento, basati su condizionamenti più o meno inconsci.
Al problema del libero arbitrio è naturalmente legato quello della coscienza, perché sarebbe una contraddizione in termini parlare di azioni volontarie inconsce. Forse è per questo che noi assegniamo alla coscienza un’importanza fondamentale nella nostra concezione dell’uomo, benché il suo ruolo nella nostra vita sia tutto sommato piuttosto limitato:non soltanto in senso metaforico, in quanto la maggior parte di noi agisce e parla troppo spesso senza sapere cosa fa e dice, ma anche in senso letterale, in quanto soltanto la minima parte delle nostre azioni sono comunque consce (basta pensare, ad esempio, alla respirazione, alla digestione e alla locomozione).
Tentando di quantificare la proporzione dell’attività conscia rispetto a quella inconscia, si arriva a una stima di circa una parte su cento miliardi: mediante esperimenti sulla percezione, ad esempio di parole composte da lettere di vari colori che lampeggiano su uno schermo a velocità variabile, ci si accorge infatti che l’informazione che la nostra attenzione cosciente riesce a gestire varie tra i 15 e i 50 bit al secondo, che è più o meno (anzi, più meno che più) la quantità di informazione regolarmente trasmessa da ciascuno dei nostri cento miliardi di neuroni.
Parlando in maniera figurata, è dunque come se soltanto uno dei neuroni del nostro cervello fosse impegnato dalla coscienza, e il resto fosse invece monopolizzato dall’inconscio!
A scanso di equivoci, questa è soltanto un’immagine quantitativa: benché ci siano infatti motivi di ritenere che la coscienza sia localizzata in certe aree cerebrali, quali il nucleo intralaminare del talamo, le cui lesioni provocano appunto una perdita di coscienza, non si può certo immaginare che tali aree cerebrali si riducano ad un solo neurone!
Rimane il fatto di questo ruolo minimale della coscienza, al quale e alla quale noi attribuiamo però un’importanza massimale.
Tentando di quantificare la proporzione dell’attività conscia rispetto a quella inconscia, si arriva a una stima di circa una parte su cento miliardi: mediante esperimenti sulla percezione, ad esempio di parole composte da lettere di vari colori che lampeggiano su uno schermo a velocità variabile, ci si accorge infatti che l’informazione che la nostra attenzione cosciente riesce a gestire varie tra i 15 e i 50 bit al secondo, che è più o meno (anzi, più meno che più) la quantità di informazione regolarmente trasmessa da ciascuno dei nostri cento miliardi di neuroni.
Parlando in maniera figurata, è dunque come se soltanto uno dei neuroni del nostro cervello fosse impegnato dalla coscienza, e il resto fosse invece monopolizzato dall’inconscio!
A scanso di equivoci, questa è soltanto un’immagine quantitativa: benché ci siano infatti motivi di ritenere che la coscienza sia localizzata in certe aree cerebrali, quali il nucleo intralaminare del talamo, le cui lesioni provocano appunto una perdita di coscienza, non si può certo immaginare che tali aree cerebrali si riducano ad un solo neurone!
Rimane il fatto di questo ruolo minimale della coscienza, al quale e alla quale noi attribuiamo però un’importanza massimale.
Una spiegazione ovvia di questo apparente paradosso è che, per definizione, l’unica parte della vita che non ci appare trasparente è appunto quella che percepiamo coscientemente: allo stesso modo, in filosofia non possiamo pensare altro che ciò che è pensabile, in letteratura descrivere ciò che è descrivibile, in fisica osservare ciò che è osservabile, in matematica calcolare o dimostrare ciò che è calcolabile o dimostrabile, benché la maggior parte delle cose al mondo non siano pensabili, descrivibili, osservabili, calcolabili o dimostrabili.
Per rimanere comunque alla coscienza e al libero arbitrio, alcuni dei fatti più sorprendenti scoperti al proposito negli ultimi cinquant’anni sono dovuti al neurofisiologo Benjamin Libet.
Dopo essere stati discussi fino alla nausea nella letteratura specializzata, essi sono stati divulgati dal loro stesso autore in “Mind Time". Il fattore temporale della coscienza (Cortina, 2007). E, in buona sostanza, si possono riassumere dicendo che le sue ricerche evidenziano un ritardo di circa mezzo secondo tra il momento in cui l’informazione relativa a uno stimolo sensoriale arriva al cervello, e il momento in cui esso viene percepito coscientemente.
Per capire meglio la questione, proviamo a guardare la rallentatore lo svolgersi di un tipico evento quotidiano: ad esempio, la brusca frenata che un’auto ci costringe a fare, tagliandoci la strada.
Al tempo 0 l’auto taglia la strada. Dopo 50-60 millisecondi il nostro cervello percepisce la scena. Tra i 100 e i 150 millisecondi il nostro piede frena. Dopo 500 millisecondi, cioè il fatidico mezzo secondo, la nostra coscienza si rende conto di ciò che è accaduto: naturalmente, se incominciassimo a frenare solo allora, spesso sarebbe troppo tardi.
In fondo, però, questo lo sapevamo già: non è la coscienza a permetterci di reagire ai pericoli e alle situazioni di emergenza, bensì l’istinto.
Dopo essere stati discussi fino alla nausea nella letteratura specializzata, essi sono stati divulgati dal loro stesso autore in “Mind Time". Il fattore temporale della coscienza (Cortina, 2007). E, in buona sostanza, si possono riassumere dicendo che le sue ricerche evidenziano un ritardo di circa mezzo secondo tra il momento in cui l’informazione relativa a uno stimolo sensoriale arriva al cervello, e il momento in cui esso viene percepito coscientemente.
Per capire meglio la questione, proviamo a guardare la rallentatore lo svolgersi di un tipico evento quotidiano: ad esempio, la brusca frenata che un’auto ci costringe a fare, tagliandoci la strada.
Al tempo 0 l’auto taglia la strada. Dopo 50-60 millisecondi il nostro cervello percepisce la scena. Tra i 100 e i 150 millisecondi il nostro piede frena. Dopo 500 millisecondi, cioè il fatidico mezzo secondo, la nostra coscienza si rende conto di ciò che è accaduto: naturalmente, se incominciassimo a frenare solo allora, spesso sarebbe troppo tardi.
In fondo, però, questo lo sapevamo già: non è la coscienza a permetterci di reagire ai pericoli e alle situazioni di emergenza, bensì l’istinto.
Ma Libet ha scoperto che il ritardo di mezzo secondo è sistematico: la stimolazione dei neuroni della corteccia sensoriale non produce una percezione cosciente se non dopo 500 millisecondi, e la produce solo se la stimolazione è sufficientemente protratta nel tempo.
Questo non significa che l’azione venga inibita da, e durante, i blackout della coscienza: non quelli momentanei, come nell’esempio della frenata, ma neppure quelli permanenti, come nella patologia della visione cieca. Significa, però, che tutti noi soffriamo di una congenita “temporale percezione cieca” , che ci preclude sistematicamente la coscienza degli eventi per mezzo secondo: in termini musicali, la nostra sensorialità è come una fuga a due voci, in cui la stimolazione funge da dux, e la coscienza da comes che la insegue a un intervallo di mezzo secondo.
Tutto ciò sarebbe in fondo soltanto curioso, se Libet non avesse scoperto qualcosa di molto più inquietante: il fatto, cioè, che la stessa cosa succede non solo per la nostra percezione passiva, in cui è il mondo ad agire su di noi, ma anche per la nostra volizione attiva, in cui siamo (o dovremmo essere) noi ad agire sul mondo.
Più precisamente, gli effetti cerebrali inconsci delle nostre decisioni precedono le loro supposte cause coscienti: ad esempio, quando decidiamo di muovere un dito, il movimento avviene 150 o 200 millisecondi, ma le aree cerebrali ad esso preposte si attivano 350 o 400 millisecondi prima dell’ordine!
Questo non significa che l’azione venga inibita da, e durante, i blackout della coscienza: non quelli momentanei, come nell’esempio della frenata, ma neppure quelli permanenti, come nella patologia della visione cieca. Significa, però, che tutti noi soffriamo di una congenita “temporale percezione cieca” , che ci preclude sistematicamente la coscienza degli eventi per mezzo secondo: in termini musicali, la nostra sensorialità è come una fuga a due voci, in cui la stimolazione funge da dux, e la coscienza da comes che la insegue a un intervallo di mezzo secondo.
Tutto ciò sarebbe in fondo soltanto curioso, se Libet non avesse scoperto qualcosa di molto più inquietante: il fatto, cioè, che la stessa cosa succede non solo per la nostra percezione passiva, in cui è il mondo ad agire su di noi, ma anche per la nostra volizione attiva, in cui siamo (o dovremmo essere) noi ad agire sul mondo.
Più precisamente, gli effetti cerebrali inconsci delle nostre decisioni precedono le loro supposte cause coscienti: ad esempio, quando decidiamo di muovere un dito, il movimento avviene 150 o 200 millisecondi, ma le aree cerebrali ad esso preposte si attivano 350 o 400 millisecondi prima dell’ordine!
Giustamente, nel capitolo finale del suo libro Libet si pone la domanda fatidica:” Che cosa significa tutto questo?”, ma si limita a notare che il breve intervallo fra una volizione mentale e la sua esecuzione materiale è sufficientemente lungo per permetterci di inibire il movimento. In altre parole, il nostro libero arbitrio sembra essere compatibile con il compito negativo di evitare qualcosa che altrimenti succederebbe in maniera indipendente dalla nostra volontà: forse per questo i comandamenti etici, siano dettati da Jahvè a Mosè, o suggeriti dal daimon a Socrate, o proposti come regola aurea (“non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”) da Confucio, sono più proibitivi che impositivi, e chiedono più di non fare che di fare.
Accomodare il libero arbitrio con i compiti positivi, quali la versione cristiana della regola aurea (“fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”), è più complicato. Gli esperimenti di Libet mostrano infatti chiaramente che sia gli ordini coscienti, sia i loro supposti effetti, derivano da qualcosa che li precede entrambi, e che ne è la vera, nascosta, e per ora ignota causa ( a meno, naturalmente, di voler ammettere fantascientifiche retroazioni temporali che permettano alle volizioni di attivare nel passato aree cerebrali che provochino un movimento nel futuro).
Accomodare il libero arbitrio con i compiti positivi, quali la versione cristiana della regola aurea (“fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”), è più complicato. Gli esperimenti di Libet mostrano infatti chiaramente che sia gli ordini coscienti, sia i loro supposti effetti, derivano da qualcosa che li precede entrambi, e che ne è la vera, nascosta, e per ora ignota causa ( a meno, naturalmente, di voler ammettere fantascientifiche retroazioni temporali che permettano alle volizioni di attivare nel passato aree cerebrali che provochino un movimento nel futuro).
Naturalmente, rimane da spiegare quale sia il valore evolutivo di quell’illusione chiamata volizione cosciente. L’ipotesi più interessante, per ora, ci sembra quella proposta dal fisico Erwin Schrodinger, premio nobel nel 1932, nel suo libro “mente e materia”, che si può illustrare con una metafora. Quando i primi uomini sbarcarono sulla Luna, il 20 luglio del 1969, il volo della navicella spaziale procedette in maniera automatica fino all’atterraggio, a parte una piccola correzione di rotta effettuata manualmente da Armstrong all’ultimo momento, per evitare un ostacolo imprevisto: la coscienza è come quella correzione di rotta, necessaria fino a quando la navicella umana si sarà sufficientemente evoluta per poter procedere completamente col pilota automatico, come già fanno altre specie che noi con infantile superbia riteniamo e chiamiamo “inferiori”.
BIG S